LO SFORTUNATO
DESTINO
DI DON CARLOS
Michele E. Puglia
(Articolo collegato con
“L’Inghilterra dai Tudor
agli Stuart”)
SOMMARIO: DON CARLOS INFANTE DI
SPAGNA RESO FAMOSO DAI DRAMMI IMMORTALI;
L’INCIDENTE DI ALCALA E LA DECISIONE DELLA FUGA; PRIGIONIA
E MORTE DI DON CARLOS.
D |
urante l’anno 1567, la reggente Margherita di
Parma e la nobiltà delle Fiandre avevano mandato in incognito a Londra il conte
di Egmont, per proporre a Elisabetta il matrimonio con l’infante don Carlos il quale
stava manifestando, in maniera piuttosto turbolenta, la sua impazienza per regnare: i fatti si erano svolti nel modo seguente.
Nei Paesi Bassi, erano sorti dei torbidi da
parte dei protestanti fiamminghi e la reggente Margherita, (figlia naturale di
Carlo V), moglie di Alessandro Farnese duca di Parma, aveva mandato dal re
Filippo, il conte Egmont per chiedere aiuti; il conte, trovandosi presso quella
Corte, era venuto a conoscenza delle smanie dell’infante, figlio di Filippo II,
desideroso di avere un regno da governare e Egmont aveva pensato al matrimonio
di don Carlos con la regina Elisabetta. Con questo matrimonio Filippo II
avrebbe potuto affidare i Paesi Bassi a don Carlos e nello stesso tempo
accontentare i fiamminghi, che avendo un loro re, avrebbero smesso di creare
torbidi; l’idea era stata ben accolta da Filippo che aveva mandato Egmont da
Elisabetta, in missione segreta.
Quando don Carlos, infante di Spagna erede della immensa monarchia spagnola, aveva
raggiunto i diciotto anni (1563),
nonostante le sue condizioni fisiche e di salute, presso quella Corte,
vi era stato tutto un gran fermento per
cercargli una moglie, anch’essa di qualsiasi età e condizioni fisiche; infatti,
prioritario per gli Asburgo, non era né l’età (Margherita di Parma era di diciotto anni più anziana del marito
Alessandro Farnese), né le condizioni fisiche (come vedremo per la granduchessa
Anna, offerta in moglie a don Carlos) e tantomeno quello mentale (come si stava
verificando per don Carlos, e si verificherà con Filippo III e IV che
verranno), ma si teneva conto solo dell’acquisizione di un regno portato in
dote o di quelli che avrebbero potuto esserlo in seguito (Bella gerant alii, tu felix Austria nube: v. Art. Carlo V ecc. P.
II).
La prima a muoversi in questo senso nei confronti
di don Carlos, era stata Caterina de’
Medici (moglie di Enrico II) che aveva già dato in matrimonio a Filippo, di
trentatre anni, la figlia sedicenne, Isabella (o Elisabetta) di Valois (inizialmente
destinata a don Carlos); ben educata
dalla madre in tutti i particolari, per poter essere moglie di un re. Caterina,
inoltre, offriva (1560) per il principe don Carlos quindicenne, la sua seconda
figlia, Margherita, di sette anni e il cardinale di Lorena, ambasciatore di
Francia a Madrid, aveva avuto l’incarico di parlarne con il re.
Per di più, dalla Corte di Lisbona era stata
presentata al cardinale una richiesta per Margherita da parte del re don
Sebastiano del Portogallo; ma Caterina aveva risposto negativamente in quanto,
aveva fatto sapere che preferiva che Margherita fosse vicino alla sorella; ma, in
quel periodo don Carlos stava attraversando uno dei suoi periodi di febbre e la
richiesta non aveva avuto seguito.
Nel frattempo Maria Stuart, vedova del re di
Francia e maggiore di due anni e mezzo di don Carlos, di tutt’altra tempra,
alta e bella, era stata lei stessa ad inviare lord Lethington a Londra, per
presentare la sua richiesta di matrimonio per don Carlos, all’ambasciatore di
Spagna Alvaro de la Quadra, vescovo dell’Aquila.
Confidenzialmente era stato detto
all’ambasciatore che oltre alla Scozia, la regina avrebbe avuto il trono
d’Inghilterra e d’Irlanda; che il
matrimonio era approvato dal conte di Murray, fratello naturale della regina e
dal Consiglio reale scozzese. Il re Filippo aveva accolto con piacere la
proposta, non solo nell’intento di far entrare l’Inghilterra tra i domini
spagnoli, ma in quello prioritario di far rientrare tutto il regno inglese nel
mondo cattolico.
Lethington, recatosi a Londra aveva riferito a
Elisabetta di queste trattative e lei, piuttosto risentita gli aveva risposto
che se la regina avesse sposato un principe della Casa d’Austria, sarebbe
divenuta una sua nemica e prometteva che l’avrebbe dichiarata sua erede solo se
si fosse maritata con sua soddisfazione;
Maria intanto sposava il bel Darnley, andando incontro ad altro destino.
Anche da parte dell’imperatore Ferdinando II,
fratello di Filippo, era giunta una richiesta per don Carlos, per la nipote
arciduchessa Anna di Boemia (figlia di Massimiliano, re di Boemia, poi
imperatore) ma alla Corte di Madrid si trovava donna Juana, sorella di Filippo,
che seguiva il nipote don Carlos facendogli da madre; anch’essa, più anziana di
dieci anni, mirava al matrimonio con l’infante.
Juana era una delle più belle e graziose donne
della Castiglia e a diciotto anni (1554) aveva sposato don Juan del Portogallo,
erede di quella corona che dopo due anni dal matrimonio (1556), l’aveva
lasciata vedova. A Juana non erano mancati i pretendenti, come una richiesta
che le era pervenuta per Francesco de’ Medici, ma Juana l’aveva rifiutato in
quanto non voleva sposare un figlio di mercanti.
Era su don Carlos che aveva puntato le sue
mire; ma don Carlos non aveva uguali intenzioni per la zia, mentre aveva
trovato di suo gradimento la sorella della regina, Maddalena, della quale
Isabella gli aveva mostrato il ritratto; lei aveva dodici, anni mentre don
Carlos ne aveva ventuno.
Da Vienna l’imperatore Ferdinando era sempre
interessato al matrimonio del nipote con la nipote Anna; Ferdinando nel
frattempo moriva e gli succedeva il figlio Massimiliano II, padre
dell’arciduchessa Anna, che sollecitava Filippo per una decisione. Filippo dopo
varie insistenze si decise a dare l’assenso; poiché le vere condizioni fisiche di don Carlos non
erano state riferite, aveva voluto che i due si conoscessero incontrandosi.
Anche le condizioni dell’arciduchessa non erano da meno, in quanto anch’essa
aveva dei problemi e, come era stato riferito, viveva seduta su due sedie. Nel
frattempo si verificavano altri avvenimenti che colpivano don Carlos che mandavano
a monte queste trattative.
Don Carlos era il frutto dei matrimoni
incrociati tra parenti stretti, praticati dagli Asburgo (v. cit. Bella gerant
ecc. in Art. Carlo V ecc. P. II): il padre Filippo, figlio di Carlo
V, aveva sposato (1543) Maria del Portogallo, figlia di Caterina, sorella di
Carlo V, e di Giovanni III del Portogallo, il quale era figlio di Maria
d’Aragona, quartogenita di Ferdinando II d’Aragona e Isabella di Castiglia
(sorella di Giovanna detta la pazza,
madre di Carlo V) e Maria del Portogallo moriva quattro giorni dopo aver dato
alla luce don Carlos (1545).
L’ aspetto di don Carlos non era quello
descritto a Elisabetta d’Inghilterra per farle buona impressine; a otto anni egli
aveva l’aspetto di un ragazzo malaticcio, dalla carnagione che non era bianca, ma
pallida, come il pallore mortale del padre; la sua testa era grossa rispetto al
corpo mingherlino, il viso era alquanto somigliante al padre; gli occhi grigi e
spenti erano quelli di un vecchio; dalla
bocca stretta gli usciva la bava; aveva il petto rientrante, una spalla più
bassa dell’altra e la schiena curva formava una gobba; zoppicava in quanto
aveva la gamba destra più corta della sinistra (probabilmente dovuta a
poliomelite, sconosciuta all’epoca); era epilettico e soffriva di febbre
terzana o quartana (malarica intermittente) e di digestione; di
carattere era iracondo e aveva reazioni isteriche.
Aveva inoltre strani istinti (di sadismo),
mostrati fin dall’allattamento: l’ambasciatore Tiepolo, aveva scritto che “il principe Carlo... tiene alcuni modi di procedere et
costumi molto notabili, perché fanciullo, non solamente mordette, ma mangiò i
petti a tre sue baile”. Crescendo, spesso mostrava segni di violenza e di
crudeltà, come quando gli avevano portato dalla caccia una lepre viva e
prendendola per la gola gliel’aveva stretta, vedendola palpitare e morire; e
gli animali presi a caccia, voleva che fossero arrostiti vivi; un giorno gli
avevano dato una biscia che gli aveva morso leggermente un dito: le tagliò
subito la testa con i denti.
E’ davvero singolare che un giovanetto – tale
era don Carlos – vissuto solo ventitré anni, per una serie di circostanze, come
il pietoso affetto che la regina Isabella, giovanissima moglie di suo padre
Filippo II di Spagna, nutriva per lui, era stato trasformato dai drammaturghi,
in romanzesco amore passionale e la sua morte, avvenuta durante la sua
prigionia in cui, per motivi contingenti, era stato tenuto dal padre, erano
stati elementi dai quali i drammaturghi avevano creato e sviluppato una storia
d’amore finita tragicamente, che aveva reso don Carlos tanto celebre nella
letteratura di tutta l’’Europa, da aver lasciato il suo ricordo attraversato i
secoli.
Primo tra i drammaturghi che gli aveva dedicato
un dramma in versi, “El Príncipe don
Carlos” (si
veda l’approfondita descrizione in Bibliografia
delle Opere di Bompiani), era stato lo spagnolo Diego Jiménez de Enciso
(1585-1634) che si era attenuto alla realtà storica, senza parlare del suo amore
con la regina. Era stato seguito da Thomas Otway (1652-1685) e da altri autori
come Vittorio Alfieri (1749-1803), ma chi gli aveva dato il crisma del successo,
era stato Friedrich Schiller (1759-1805) che aveva scritto una tragedia
romantica, storica e religiosa, da cui emergevano ideali di verità e libertà.
L’INCIDENTE
DI
ALCALA E
LA DECISIONE
DELLA FUGA
A |
diciassette anni don Carlos si trovava nella
villa di Alcala ed era sorta una simpatia per la figlia del custode, che andava
a trovare a mezzanotte attraverso una scala posticcia, in quanto il governatore
don Garcia di Toledo, per evitare questi incontri, aveva fatto murare la porta
che conduceva al giardino; nel buio don Carlos metteva un piede in fallo e
cadendo si feriva (19 aprile) dietro la testa a sinistra; la ferita era della grandezza di un’unghia di pulce,
ma le conseguenze erano state tali che
don Carlos era stato dato in pericolo di vita.
Sul decorso della malattia era stata scritta una relazione circostanziata, per cui
si conoscono tutti i particolari del suo decorso, fino alla guarigione.
Le cure dell’epoca lasciano allibiti; non si
trattava che di escoriazione, ma era stata considerata frattura del cranio, sebbene curato da grandi medici come Andrea
Vesalio. Per prima cosa, e lo si faceva in tutti i casi in cui qualcuno avesse
bisogno di una cura, gli furono estratte undici
once (circa un etto) di sangue, per due volte; poi lo fecero sudare per
un’ora e mezza; durante i giorni successivi il malato aveva febbre alta e soffriva
di mal di testa; il 30 aprile si decise di aprire il cranio nella parte della
ferita, per vedere se fosse stato coinvolto il cervello; il cervello era
risultato intatto; solo il pericranio risultava essere stato toccato
leggermente!
I medici e chirurghi che seguivano il paziente erano
nove; il 2 maggio il principe delirava e la febbre alta suggeriva di far
ricorso al sacro, che in Spagna e regnante Filippo, era opprimente: prima venne
la confessione e la comunione di tutta la Corte; il 5 maggio il re ordinava le preghiere in tutte le città
e villaggi del regno e le processioni con i sacramenti e le reliquie venerate
dai fedeli; il re stesso passava ore intere in ginocchio a pregare per il suo
unico figlio; la regina e la principessa Juana avevano passato un’intera notte
a pregare ed era stata fatta una processione nella residenza reale, pregando e
piangendo davanti all’immagine del Salvatore; ma le preghiere non avevano sortito
alcun effetto auspicato.
Vesalio con i medici avevano sospettato una
lesione interna e dopo lungo dibattito decidevano un’altra trapanazione (9
maggio): il cranio era stato trovato bianco e solido, era uscita solo qualche
goccia di sangue ... molto colorata!
Nel convento si conservava il corpo di un
religioso morto un centinaio di anni prima
in odore di santità: il suo nome era fra’
Diego de Chaves; il duca d’Alba fece portare il cadavere che risultava
ancora intatto, nella camera di don Carlos avvolto in un lenzuolo; i frati
tolsero il lenzuolo e misero il cadavere sul corpo del principe, suggerendo al
principe di pregare con fervore; poi i monaci ripresero il cadavere e lo
portarono nella chiesa dei francescani. La sera a don Carlos fu fatto un
salasso alla vena nasale; gli applicarono le ventose; il malato si addormentò
per sei ore e durante il sonno gli apparve fra’
Diego con una croce di rose,
circondata da un nastro verde, che gli disse che per questa volta non sarebbe
morto.
Il giorno seguente si era presentato un moro di
nome Pinterete, che offriva due unguenti per il malato: i medici erano
contrari, dicendo che non si conoscevano gli ingredienti, ma prevalse l’idea di
usarli ugualmente: uno era bianco e aveva un effetto vasocostrittore; l’altro
era nero e serviva a moderare il bianco; furono applicati sulla ferita fino al
12, senza alcun beneficio, anzi il cranio diventava nero come l’inchiostro: i
medici conclusero che gli unguenti del
moro non avevano avuto alcun effetto; fu applicato sulla piaga un impiastro di betonica, senza alcun giovamento; la
febbre persisteva e il 16 la palpebra inferiore dell’occhio sinistro si era
gonfiata, poi si era gonfiata anche quella dell’altro occhio.
Vesalio suggeriva di aprire sotto la palpebra
per fare uscire gli umori ammassati; con l’apertura era fuoriuscita abbondante
materia e il malato aveva avuto un beneficio immediato e l’infiammazione
scompariva poco a poco. Il 20 la febbre scompariva ed ebbe inizio la convalescenza; il 24 fu fatta
una processione solenne; la ferita alla testa con l’aiuto di vari impiastri,
poco a poco si era cicatrizzata; l’erisipela che si era diffusa sulla testa del
principe, scomparve; il 14 giugno il principe si alzava dal letto per assistere
alla messa e prendere la comunione. Il 29 giugno don Carlos si recava ad assistere alla messa in onore di fra’ Diego, che non ancora era stato
rimesso nella sua tomba; e vi fu un seguito.
Don Carlos riteneva di attribuire la sua
guarigione a fra’ Diego, per cui
chiese al padre di richiedere a Roma la sua santificazione; il papa si era
espresso favorevolmente, ma a causa di ritardi, don Carlos moriva prima di
vedere il suo fra’ Diego santificato.
Don Carlos in ogni caso non dava segni di
equilibrio normale. Un giorno, dopo aver fatto uscire i presenti dalla stalla,
vi si era chiuso e aveva ucciso venti cavalli. Era solito andare in giro di
notte con l’archibugio e con amici debosciati, insultando le donne che
incontrava, chiamandole bagasce, cagne e altri insulti; durante una delle sue
scorribande, da una finestra gli avevano buttato dell’acqua; preso da furore
era tornato al palazzo, dando l’ordine
alle guardie di andare a bruciare la casa, dopo aver strozzato quelli che
l’abitavano.
Le guardie non eseguirono l’ordine, ma tornando
dissero che quando erano giunti, avevano visto un prete che portava i
sacramenti a un malato e avevano rispettato la casa; don Carlos accolse la
giustificazione credendola veritiera, anche perché nel frattempo la sua crisi
si era calmata.
Don Carlos e Filippo erano giunti a un livello
insostenibile di convivenza in quanto don Carlos aveva le smanie per avere un
regno, che si era manifestata fin dall’età di quindici anni; ma Filippo pur avendogli promesso di mandarlo
nelle Fiandre per sedare i torbidi creati dai protestanti, l’incarico lo aveva
dato al duca Ferdinando d’Alba de Toledo.
Essendone venuto a conoscenza, don Carlos si
era recato dal duca minacciandolo con il pugnale; era evidente che per la sua
instabilità mentale (*) il padre fosse restio ad affidargli il governo dei
Paesi Bassi. Il nonno Carlo V aveva detto di lui “le sue
maniere e il suo umore (carattere)
non mi piacciono, non so cosa potrà
divenire un giorno”. Poiché il padre non si decideva ad affidargli
l’incarico, don Carlos aveva deciso di fuggire dalla Spagna e aveva chiesto
aiuto a don Giovanni (anch’egli personaggio storico, ispiratore di romanzi di
altro genere), fratellastro del padre, grande ammiraglio, al quale chiedeva di
aiutarlo nella fuga, mettendogli a disposizione una nave.
Don Giovanni, inutilmente aveva cercato di
dissuaderlo mettendolo di fronte alle difficoltà e ai pericoli in cui andava
incontro, senza che don Carlos volesse intenderlo. Don Giovanni gli chiedeva
ventiquattro ore, per riflettere sulla sua richiesta; ma, non essendo meno
ambizioso del nipote e avendo buoni rapporti con Filippo che lo ricopriva di
onori (a parte il titolo di “eccellenza”
che gli veniva riconosciuto invece di “altezza”),
montando su un cavallo, si recava direttamente all’Escuriale da Filippo,
rivelandogli le intenzioni del figlio (Gennaio 1568).
*) Le condizioni mentali di don Carlos ci fanno
risalire a Cesare Lombroso (v. Schede S.) il quale nel suo libro L’uomo di Genio, aveva affermato che tra
i discendenti degli uomini di genio, tra i quali aveva indicato Carlo V, “si nota una degenerazione progressiva nel
crimine e la follia si riproduce nei parenti o nei fanciulli, ciò che
conferma a posteriori, il carattere degenerativo del genio”. E nel
paragrafo: Parenti e figli criminali o alienati di uomini di genio,
ci fa l’esempio del figlio del virtuoso Marc’Aurelio, Commodo, che fu un mostro
di crudeltà; il figlio di Scipione l’Africano, era imbecille e il figlio di
Cicerone era alcolizzato, il figlio di Lutero era insubordinato e violento;
Temistocle, Aristide, Pericle, Tucidide erano tutti sfortunati nei figli;
Cardano aveva due figli, uno, dotato di genio, condannato a morte come
avvelenatore; l’altro giocatore, alcolista e ladro, era stato ripetutamente
messo in prigione in diverse città dì’Italia.
A proposito di queste predisposizioni
all’alcol, alla droga e ai vizi in genere, era stato trovato un particolare gene che le predispone, per cui i vizi,
di qualunque genere siano, sono da considerare vere e proprie malattie; le
future ricerche sui geni ci daranno altre sorprese.
Ovviamente le teorie di Lombroso, che
prendevano in considerazione fattori esteriori e visibili del corpo umano, sono state annullate e superate dalla genetica che se ha demolito le sue
teorie, ora le ricerche si dovranno indirizzare
verso quella ereditarietà riscontrata
dallo scienziato.
PRIGIONIA
E MORTE
DI DON CARLOS
I |
l re, dopo aver sentito ciò che gli aveva
riferito don Giovanni, non potendo permettere che il figlio che gli doveva
succedere, portasse ribellione e rivolte
nelle
province della monarchia, aveva fatto chiamare
il conte di Lerma e Rodrigo de Mendoza, addetti all’appartamento del figlio,
disponendo di sorvegliarlo; mentre faceva chiamare Ruy Gomez, il duca Ferìa e il priore Luis Quijada (o Quezada), ai
quali riferiva tutte le circostanze di pericolo create dal figlio. Faceva inoltre,
chiamare i due gentiluomini della sua camera, Pedro Manuel e Diego de
Acuna e dodici uomini della sua guardia
e Filippo si recava da don Carlos per arrestarlo; l’infante era abituato a
dormire da solo, senza la compagnia del monteros
(*) e ai piedi del letto aveva la spada e il pugnale.
I particolari dell’arresto, che seguono, sono
stati ripresi dal documento riportato da Cantù, depositato presso la Biblioteca
di Vienna:
Il re aveva fatto segretamente intendere al
conte di Lerma e don Diego Mendoza, che la notte non lasciassero le porte chiuse
a chiave. A Santoro e Bernate, suoi aiutanti di camera, fece prendere chiodi e
martelli; poi con loro soli e con quattro del Consiglio di Stato che erano, il
duca di Ferìa, il signor di Ruy Gomez, il priore don Antonio di Toledo e don
Luigi Quijada, senza lumi e in abito domestico, sulle undici ore della sera, furono nella camera del principe. Prima, sua
maestà dal capo del letto, aveva preso e dato a Santoro, la spada e il pugnale;
quando il principe si accorse della sua presenza, turbato e levato in piedi sul
letto, domandò al padre se era là per togliergli
la vita o la libertà. Né l’una né
l’altra, rispose il re; quindi agli aiutanti, che avevano portato chiodi e
martelli, impose che inchiodassero le finestre. Fu allora che il principe tentò
di buttarsi nel fuoco del caminetto che ardeva grandissimo nel camno, ma il priore don Antonio di Toledo lo ritenne; egli si
avventò sui candelieri, e quelli e i capifuoco, furono tolti via. Allora si
gettò ai piedi del padre, pregandolo di ammazzarlo, ma egli con l’usata
temperanza gli disse e replicò che s’acquietasse. E fattolo tornare a letto
fece portar fuori forzieri e scritture” (fin qui il citato documento).
Tra gli scritti di don Carlos fu trovato un
elenco in cui imprudentemente aveva riportato i nomi dei suoi amici e dei
nemici, che avrebbe perseguitato fino alla morte; il primo di questi ultimi era suo padre. Don Carlos fu lasciato in
stato di arresto nel suo appartamento, sotto la sorveglianza del duca di Ferìa,
nella qualità di capitano della guardia. Il giorno seguente si pensò a
trasferirlo in un’ala del palazzo reale
di Madrid, che aveva una stanza, chiamata la torre, senza camino, con una finestra
alta e ferrata; nel muro era stata praticata un’apertura per ascoltare la
messa; il resto dell’ala del palazzo era stato dato a Ruy Gomez incaricato
della sorveglianza, per abitarlo con la sua famiglia; gli erano anche stati
assegnati, per assisterlo, il conte di Lerma, don Giovanni de Mendoza, don
Gonzalo Harcon, don Pedro Manrique, don Bernardo Donarides e don Giovanni
Borgia.
Le ragioni di questa risoluzione, (riferiva il
documento indicato) di essere tenuto sotto stretta sorveglianza, si
attribuivano o a difetto del cervello del principe o a disperazione, essendosi
visti segni che indicavano le sue intenzioni di voler uscire dalla Spagna.
Riprendiamo il racconto di altro testo (Captivité e mort de don
Carlos dell’accademico M. Gachard, dell’Accademie
Royale Belgique, Bruxelles,
1859).
Per coloro che dovevano assistere il principe era
stato redatto un regolamento che
descriveva con precisione e minuziosamente il comportamento di ciascuno di essi.
Il re Filippo, abituato a organizzare tutto nei minimi particolari, aveva
fatto scrivere un regolamento (2 marzo), al quale si dovevano attenere
minuziosamente (come p. es., quando si parlava nella camera in cui si trovava
il figlio, si doveva parlare in modo che tutti sentissero ciò che si diceva),
tutti coloro che erano addetti alla
sorveglianza del principe; il responsabile era Ruy Gomez addetto al suo
servizio, alla sua tavola, ai vestiti e alle proprietà della camera.
Per tutte queste misure prese nei suoi
confronti, don Carlos si abbandonava alla disperazione e ritenendosi un
principe oltraggiato e disonorato, aveva deciso di lasciarsi morire d’inedia;
verso la fine di febbraio era divenuto magro da fare spavento, con gli occhi
che gli uscivano dalle orbite; in questi giorni era rimasto digiuno per
cinquanta ore di seguito, i medici avevano creduto che fosse giunta la sua
ultima ora; poi aveva ricominciato a mangiare e il suo stato di salute era migliorato.
Ma don Carlos non aveva rinunciato all’idea di
lasciarsi morire; aveva sentito dire che un diamante introdotto nello stomaco
fosse un veleno mortale; egli aveva al dito un anello con un grosso diamante
che inghiottiva, ma non aveva avuto alcun effetto e l’anello gli era uscito dal
corpo (vi era stato anche chi aveva indicato questo giorno che sarebbe stato il
diciassettesimo successivo a quello in cui l’aveva inghiottito).
Il 19 maggio 1564 don Carlos a letto malato,
aveva dettato al notaio Domingo de Cavala il suo testamento firmato, con
impresso il suo sigillo, in presenza di
sette testimoni dell’ordine ecclesiastico. Il testamento smentiva ciò che era
stato detto sul suo stato di salute mentale ed era pieno di buon senso, di
ragione e di cuore, da cui emergevano sentimenti nobili e generosi; era stato
detto che se si fossero dovuti esprimere dei giudizi su don Carlos,
giudicandolo dal suo testamento, non si sarebbero potuti non fare degli elogi
alla sua memoria (Philippe II et don Carlos,
José Guelle y Renté, Paris 1878).
Può anche darsi che per le condizioni in cui
don Carlos si fosse trovato a vivere, avrebbero potuto accelerare la sua morte;
infatti nella sua camera soffrendo il caldo aveva fatto ricorso a un sistema per
combatterlo, che era da polmonite fulminante.
Nel periodo più caldo, nel mese di luglio, don
Carlos si era lasciato andare a tutti gli eccessi: pieno di sudore, dormiva
nudo con la finestra aperta e rinfrescava il letto con lo scaldino, pieno di
ghiaccio; mangiava in eccesso prugne e poi beveva acqua gelata. Un giorno, dopo
aver mangiato un’intera porzione di paté di pernice, gli era venuta una gran
sete e aveva bevuto per tutto il giorno acqua con ghiaccio; la notte aveva
avuto una violenta indigestione con vomito; erano stati chiamati i medici, ma
don Carlos rifiutava di prendere le medicine; il 19 luglio il suo stato non
lasciava speranze; era stato chiamato il confessore fra’ Diego de Chaves.
Aveva chiesto di vedere suo padre che non solo rifiutò,
ma proibì alla regina e alla principessa Juana di visitarlo; dopo aver fatto un
nuovo testamento (22 luglio), all’una dopo la mezzanotte del 24 luglio don
Carlos spirava senza aver perso la sua lucidità; qualche attimo prima gli
avevano messo l’abito francescano, come egli stesso aveva richiesto.
In Spagna e fuori dalla Spagna la morte di don
Carlos aveva dato luogo a molti sospetti ed erano stati in tanti a non
ritenerla una morte naturale, ciò che aveva dato adito, ai drammaturghi, di esaltare
le accuse nei confronti del padre; vi era stato chi riteneva che Filippo avesse
ucciso il figlio facendogli dare da bere un brodo avvelenato; chi invece che
gli fosse stato dato un veleno lento; chi aveva ritenuto fosse stato
strangolato e chi soffocato, chi diceva che era stato messo in una bara con la
testa tra le gambe, considerandola prova della sua decapitazione; tutti motivi
validi relativamente all’accusa piovuta su don Carlos e mossa dai nemici della Chiesa di
Spagna e dell’Europa, che egli fosse imbevuto delle nuove dottrine
religiose, per le quali aveva mostrato interesse, da essere ritenuto seguace.
La morte di don Carlos aveva causato dolore in
Spagna, particolarmente tra i grandi del regno, che si erano lusingati che
sotto il suo regno, si sarebbero liberati dal regime autoritario di Filippo che
li teneva lontani dagli affari di Stato e avrebbero ripreso la loro antica
influenza; mentre il popolo sperava in una amministrazione più favorevole al
progresso della ragione umana e in un regime meno assoluto e dispotico; regime,
che secondo l’ambasciatore veneziano in Spagna Francesco Vendramin, più che
per clemenza e perdono, Filippo si
faceva obbedire per il rigore e le punizioni.
Ma, a parte il confessore di don Carlos, che
ritenendolo un buon cattolico non lo considerava
capace di imprese criminali (ma anche Filippo era buon cattolico!), lo storico Modesto Lafuente (nella sua Storia generale di Spagna) riteneva
che:”La morte del principe don Carlos non era stato un male per la Spagna, in
quanto, visto il suo carattere, la nazione non poteva sperare da lui niente di
buono e al contrario doveva attendersi
grandi calamità, a meno che non si fosse parecchio emendato prima di
succedere a suo padre”.
(*)
Questi particolari servitori della casa reale che dormivano nelle camere
dei re, regine e principi, denominati monteros,
erano addetti alla guardia delle loro persone; dovevano appartenere alla
nobiltà (hidalgos) e in Spagna erano originari della
città di Epinosa e per questo detti monteros
de Espinosa.
FINE